Non è per nulla facile la situazione scolastica con la chiusura forzata di tutti gli istituti di ogni ordine e grado e non si conoscono ancora i tempi di un ritorno alla normalità. Francesco Calcagnini, docente di Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Urbino racconta la sua esperienza con gli studenti. Calcagnini è anche noto per le sue regie nazionali e internazionali di opere che hanno lasciato il segno nei teatri europei. «Un’emergenza per un teatrante può anche essere qualcosa di interessante, come quando si rovesciava la carrozza e gli artisti arrivavano senza scene nel luogo della rappresentazione: questo deve essere lo spirito».
Come procedono le lezioni in Accademia?
«Tentare di fare le cose che si facevano in assenza di presenza è un lavoro enorme. Ho come il sospetto che piova sul bagnato: questa epidemia, sta mettendo a fuoco tutto quello che in Italia è in un ritardo mostruoso, non per mancanza di volontà certo. Quindi tutto ciò mette ancora più in rilievo tutti i problemi. Fare scenografia, pittura, in una scuola terribilmente basata sul rapporto artigianale e lo scambio interpersonale, è qualcosa di totalmente da inventare ma ci proviamo, tentando di fare cose che non abbiamo mai fatto!».
La vostra Accademia si è sempre contraddistinta anche per un lavoro di pratica sul campo molto educativo?
«Trovo che il teatro spiegato e parlato sia di una noiosità mortale. Pur rispettando tutta la parte didattica, dato che il mestiere dello scenografo ha a che fare anche con la tecnica per costruire cose che devono stare in piedi, nello stesso tempo è vero che non stiamo costruendo edifici e si tratta di capire cosa sia uno spettacolo e cosa sia un’immagine sul palcoscenico. In questo la pratica è un motore di verifica eccezionale, sia per il lavoro di gruppo che per verificare cosa si riesce a fare: a volte, immagini bellissime vanno magari buttate via perché non funzionano come avremmo pensato».
La pratica come valore aggiunto?
«Tutti quando facciamo una cosa siamo convinti che sia meravigliosa, ma il palco è uno strano “scolapasta” che butta via tutto quello che non gli serve. In Accademia ci siamo abbastanza divertiti a sperimentare, sia con i piccoli spettacoli dentro l’aula che con le grandi produzioni: abbiamo avuto la fortuna di conoscere Davide Livermore, il gruppo di Teatro Sotterraneo e di fare un Barbiere di discreto successo al Rof».
E ancora per TeatrOltre, quest’anno una nuova produzione?
«Vorremo chiudere una trilogia del tutto immaginaria ideata con spettacoli tratti da lavori non pensati per il teatro. Dal Bausler Institute a quello tratto da un saggio di Sciascia dedicato al caso Moro. La chiusura di questa ipotetica trilogia verde (visto che siamo sempre immersi in un colore verdastro di luce) è un omaggio a Mario Perniola, con un libro che ebbe successo negli anni 90 “Il sex appeal dell’inorganico”. Riletto 25 anni dopo non è profetico, ma scardina alcune cose della realtà che vediamo anche in questi giorni».
Un modo per affascinare i ragazzi anche alla letteratura?
«Portare un testo difficilissimo all’attenzione degli studenti li stimola ad un lavoro scientemente costruito: non sono solo artigiani dentro un concetto che non gli appartiene, ma entrano nelle pieghe del testo e lo comprendono. La realizzazione di questo lavoro nasce anche questa volta dal grande aiuto dei miei “soliti” colleghi: senza le sollecitazioni di Davide Riboli e Rossano Baronciani, stavolta non ci sarei riuscito».